Teatro Garibaldi - Modica

Teatro Garibaldi Modica Ulisse 2000 ITA

lunedì 06 giugno 2016

I tre ordini di palchi dopo il restauro. La volta del teatro con il tondo realizzato da Piero Cuccione.
Il nuovo Garibaldi
Dopo un lungo restauro è stato riaperto, nel cuore della Sicilia, il Teatro Garibaldi. Con lo splendore di un grande dipinto di Piero Guccione.
di Franco Antonio Belgiorno
Per chi arriva a Modica in qualunque stagione dell’anno, i panni stesi al sole nella parte alta fanno pensare a festoni di carta per il compleanno delle pietre. La città è sparsa sui pendìi di cinque colline ed è gemella della parte bassa che accoglie edifici di rara bellezza. Soprattutto le chiese sono maliose e sembrano essersi accaparrate tutti i santi del calendario che vanno da aprile ad agosto, quando i vecchi bronzi non hanno più indugi e si infuocano in battaglie piratesche.
Questa città siciliana, che fu nel XIII secolo contea dei Normanni Chiaramonte, ha tradizioni che continuano con perseveranza. Forse per questo conserva ancora i suoi vicoli silenziosi che sono piccole repubbliche dove i popolani e i borghesi vivono in pacata armonia. I balconi gonfi di panciute ringhiere spagnoleggianti ornano i costoni ardui, zeppi di case e di cortili dove, per una distrazione dell’odierna civiltà, sono rimaste intatte le “tribunelle” con l'immagine di San Giorgio che sul suo cavallo bianco calpesta il drago. Su questo panorama, simile a un gigantesco fossile, si affaccia una delle più suggestive chiese barocche dell’isola, quella appunto dedicata al santo di Cappadocia. Al limite della città alta e di quella bassa, alta 62 metri, questa chiesa ha una spinta ascensionale che la rende visibile come una montagna. La pietra porosa con cui venne costruita assorbe la luce solare durante il giorno, assumendo colori di pastello che vanno dal tenero giallo al rosa. La scalinata a forma di calice da cui scaturisce comprende 250 gradini.
Modica, vista dall’alto venendo da Ragusa, somiglia a una stampa del Settecento. La memoria del passato rivive in questa pacifica e civilissima città. Ed è qui che si svolge la nostra storia, quella di un vecchio teatro restaurato e di uno dei più amati pittori italiani del nostro tempo: Piero Guccione. Ma per narrare ciò, bisogna ritornare alla parte bassa, dominata dal Duomo di San Pietro con un’altra scalinata su cui i dodici apostoli in pietra danno l’impressione di contadinotti sereni che guardano passare il tempo. Quest’altro gioiello barocco ma il corso Umberto, una lunga lingua d’asfalto che salendo per quella che fu la vecchia cinta daziaria incontra il Teatro Garibaldi. Verso il 1820, dopo essere stato diroccato un vecchio magazzino, venne costruito con pubblico denaro un “bellissimo teatro” con due file di venti gradetti, cioè palchi, e una platea di trentadue palmi (circa otre metri). Al lume delle candele sospirarono le dame del tempo, ascoltando i versi del Saul di Vittorio Alfieri e, più tardi, le tragiche avventure della Signora delle camelie di Alessandro Dumas. Poi il pubblico crebbe, e fu così che nel 1833 la «eccellentissima ernia amministrazione» ampliò e modificò i locali. Finalmente, nel 1858, il Teatro Comunale era nato. Aveva ire ordini di palchi, il loggione e una platea larga settanta palmi (circa diciassette metri), che è anche la forma attuale. Venne inaugurato con la Traviata, rappresentata dalla Compagnia Rossi e Naselli alla quale fu decretato il trionfo.
Poi il Risorgimento nell’isola e subito dopo, «con unanime delibera comunale», il cambiamento del nome in Garibaldi. Il periodo illustre del teatro fu quello che va dal 1900 al 1940, quando la “bomboniera”, come il popolo lo chiamava, fu il punto d’incontro dei modicani e degli appassionati di molte città vicine. A calcare il palco-scenico furono attori famosi del tempo, oggi nomi dimenticati: Ninchi, De Sanctis, Guantoni, Gemmò, D’Origlia e la grande Emma Gramatica che recitò davanti a un pubblico estasiato la Santa Giovanna di George Bernard Shaw. Certe stagioni, a frugare nelle cronache perdute, si aprirono come cornucopie e dalle scene di quel palcoscenico uscirono anche le emozioni della lirica e i galoppi umoristici di Angelo Musco. Poi, la nuova epoca che si annunciava con gli anni Cinquanta e l’inadeguatezza di esso fecero sì che diventasse cinema, preso d’assalto da un pubblico nuovo e distratto. Alla fine degli anni Sessanta il destino fu quello di cadere nel silenzio. Oggi, grazie ad un Sindaco dinamico, il teatro è stato riportato alla vita.
► Da ragazzo Piero Guccione andava a piedi da Scicli, sua città natale, sino a Modica per comprare colori e pennelli. In quell’epoca la chiesa di San Giorgio dovette abbagliarlo farlo sognare. Spesse volte ne parlò ai suoi amici modicani, incantato dalla luce che su quella chiesa sembrava indugiare fino a sera. E lui, pittore della luce per eccellenza e maestro dei colori tenui, immaginò forse il “tondo” che cinquant’anni dopo avrebbe abbellito il soffitto del Teatro Garibaldi, riaperto al pubblico dopo un lungo restauro.
Eseguito a otto mani assieme a due artisti modicani, Piero Roccasalva e Giuseppe Colombo, e al romano Franco Sarnari su bozzetti del Maestro siciliano, il “tondo” è nel suo genere un capolavoro. Come a voler abbracciare tutta la città, la maestosa chiesa di San Giorgio, rivelandosi in una prospettiva di gialli e azzurri e ravvolta nell’abbagliante luce solare, sembra riunirsi al silenzio. Sulla scalinata, le figure musicali in una apparizione magica, nella riconciliazione poetica della musica e della pittura europee: il Macbeth di Verdi, la Nonna di Bellini, il Messia di Hàndel, Rinaldo e Armida, di Monteverdi, Tristano e Isotta di Wagner, il Mosè di Rossini e, in primo piano, il Don Giovanni di Mozart. Quest’ultima figura è la più emblematica del gruppo. Piero Guccione l’ha dipinta nell’atto di scendere la grande scalinata, prigioniera di Amadè, della cui musica vibra il colore scuro del costume dell’impenitente donnaiolo. Ma questo Don Giovanni, che fa compagnia ai personaggi che sono dei d’après interpretati con gioiosa invenzione dagli altri tre artisti, non ha nulla del “menuetto”, né la leggera avidità del seduttore. E nulla dell’eroe negativo esecrato da Leporello quando conta le amanti del padrone. Viene difficile pensare ad un’altra figura che possa avvicinare tanto mirabilmente il nord amato da Piero Guccione e il sud che è la sua terra. Don Giovanni, con alle spalle l’azzurro del cielo siciliano, sembra aver perduto la sua irrequietezza per farsi fuggevole immagine di un mondo diventato troppo ostico. D suo corpo si è fatto leggero come il peso della memoria e la caducità del fiore rosso di ibisco che indica con la mano. Sembra, in mezzo a tanta luce meridiana e a passo lento, lasciarsi dietro il tempo trascorso per andare incontro a quello che verrà. Due elementi, questi, che ben si addicono a un teatro rinnovato, che si è arricchito di un capolavoro. È come se il passato, ridotto in mille pezzi, si sia rinsaldato in questo bellissimo “tondo” che attirerà, come il teatro stesso che lo ospita, le nuove storie delle illusioni e delle finzioni che si ripeteranno dopo tanti anni di buio, per la gioia di un’intera città.
Franco Antonio BELGIORNO. scrittore e giornalista; tra i suoi libri L’arca sicula (Sellerio).
Fonte: ULISSE 2000 NOVEMBRE 2000

 
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